Un fiore chiamato Maria

Una lettera piena di sentimenti che ci fa vivere la storia dell’adozione della piccola Maria come se fossimo al fianco della sua mamma e del suo papà.

Ho avuto il privilegio di leggere queste lettere insieme alla famiglia di Maria, osservando il visino della bimba che sorrideva ascoltando le parole che i suoi genitori avevano trovato per raccontarle la sua storia e tenendo fra le mani la letterina scritta da Maria stessa in risposta.
Leggendola mi sono ritrovata a pensare quanto sia importante restituire ai figli la loro storia in una forma che rispetti i loro sentimenti, ma che sia allo stesso tempo chiara e veritiera, senza paura di nominare aspetti dolorosi, perché solo nell’amore della famiglia adottiva potranno trovare accoglienza e diventare affrontabili.
Quando la vita di un bambino contiene aspetti dolorosi non si può far finta di dimenticare o sorvolare su informazioni difficili perché l’aiuto più efficace è proprio sentire che i genitori comprendono le difficoltà e il dolore.
Scrivere una lettera al proprio figlio, narrandogli la sua storia, ma esprimendo anche l’affetto che si nutre per lui, permette al bambino di ritornare a rileggerla tutte le volte che vorrà, ma soprattutto di rispondere con il proprio punto di vista e di dar voce alle proprie emozioni, come ha fatto Maria.

Viviana Rossetti



Due storie d’amore: un unico splendido fiore
Ci siamo sposati con il desiderio di diventare mamma e papà, ma ci sono voluti diversi anni per capire la strada che avremmo dovuto percorrere per arrivare a te, cara Maria. Eravamo tristi, ed è stato difficile accettare la situazione perché la mamma, in quegli anni, ha scoperto di non poter avere bambini dalla sua pancia e con papà ha ascoltato la voce del cuore che indicava la strada dell’adozione.
Così ha inizio il cammino che portava a quella particolare forma di vita che è l’adozione, nell’attesa di incontrare il figlio o la figlia tanto desiderata. I nostri occhi si sono rivolti alle belle immagini e ai colori solari del tuo Paese, la Colombia. Dopo le scelte del posto di origine sono trascorsi diversi anni prima di ricevere il grande annuncio: “C’è Maria che vi aspetta”.
Era il 15 marzo 2008. Il cuore in quel momento ha ricominciato a palpitare, a sperare e a gioire. Era troppa la felicità che ci scoppiava dentro. Abbiamo iniziato a immaginarti e a cercare di darti un volto, esattamente come una mamma biologica immagina il suo bambino quando lo sente vivere nella sua pancia, e ad attenderti con la stessa trepidazione. A questo punto abbiamo pensato di farti una bellissima cameretta, che potesse darti, assieme al nostro amore, tutta l’accoglienza e il calore degno della nostra carissima figlia che di lì a poco avremmo abbracciato e amato per sempre. Ti abbiamo preparato l’armadio con tanti vestiti e indumenti per l’estate e per l’inverno. Un lettino nuovo fiammante, fatto su misura per te. Lo zaino con i libri per la lettura e i quaderni per fare tanti disegni bellissimi che esprimessero il tuo stato d’animo e il tuo mondo.
Finalmente nel mese di giugno siamo stati chiamati dall’avvocato Maria Del Pilar che ci confermava la data definitiva per il nostro primo incontro: era il 19 giugno 2008. Il tempo per prenotare il volo e il 16 giugno siamo saliti su quell’aereo che, dopo 14 interminabili ore, ci ha condotti a te.
“Ti ricordi Maria il giorno del nostro primo incontro? I nostri occhi si sono incrociati, ci siamo avvicinati piano piano. Il cuore batteva forte per l’emozione. Eravamo incantati perché eri più bella di come ci immaginavamo. Tenevi la mano alla dottoressa Sandra. L’abitino con i pizzi, le ciabattine colorate: sembravi una bambolina. Il viso più bello che avessimo mai visto. La signora ti ha sussurrato: questi sono mamma e papà.”
Indescrivibile l’emozione. Io e papà ti avevamo portato una bambola dall’Italia e tu l’hai accolta tra le tue braccia con un bellissimo sorriso. Abbiamo il dolce ricordo di come ti piaceva pettinarmi e, a poco a poco, giorno dopo giorno, i nostri tre cuori sono diventati un unico cuore.
Dopo alcuni giorni dal nostro primo incontro, esattamente il 21 giugno 2008, c’è stata la sentenza. Il giudice Laurano Alfredo de La Cruz Lopez di Mocoa ha voluto che tu, Maria, fossi nostra figlia e noi tuoi genitori. Ancora ci emoziona l’evento; avevamo in mano quel foglio che dichiarava ufficialmente che saresti stata per sempre la nostra amata, e tanto desiderata, figlia.
Ora ci apparteniamo, anche se per te rimane il ricordo della donna che ti ha messo al mondo e di una sorellina. Noi non siamo a conoscenza del tuo passato e di cosa sia successo, ma una cosa è certa: ora non sei più sola! È Gesù che ti ha condotto a noi perché due amori si cercavano: il nostro e il tuo, ed è proprio grazie al suo amore, che è nata la risposta al nostro amore.
Noi ora pensiamo al tuo futuro, a costruirti un domani non più oscuro e incerto, ma sicuro e pieno di tante cose belle e importanti: l’istruzione, la cura del tuo corpo, della tua salute, dei tuoi sentimenti, lo svago, l’attaccamento alla religione, la nostra vicinanza continua e attenta, certi che tutte queste cose saranno per te dei punti importanti di riferimento per il tuo sviluppo e per la tua formazione. Una fanciullezza luminosa e piena di gioia ti farà crescere bene e resterà come momento forte e incancellabile nella tua memoria.
Ora siamo una famiglia. Mamma e papà ti amano profondamente e vivono per te. MARIA: sei la nostra amata figlia.

Due storie d’amore che innestate l’una nell’altra fioriscono ambedue in continuità.




Un sogno si è realizzato

Quando Juan è arrivato a casa il nostro cuore si è riempito di gioia! Vedevamo il desiderio di essere famiglia finalmente avverato. Grazie mille a tutti gli operatori dell’Istituto La Casa che ci hanno seguito, consigliato, sostenuto e aiutato nel lungo cammino dell’adozione di un bambino straniero. Percorso che non è finito perché continuiamo a mantenerci in contatto con il gruppo dei genitori adottivi, a incontrarci, confrontarci, stare insieme. Questo è “fare famiglia”, un’emozione che si rinnova ogni giorno nel sorriso di Juan.


Hai mai avuto paura? Racconta

A scuola John Freddy ha svolto questo tema:

“Parlare delle mie paure non è una cosa facile per me, ma ci posso provare, sperando di farvi capire.
Io ho vissuto i primi dieci anni della mia vita in Colombia che è una bellissima nazione, ma ha qualche problema sia con la guerriglia sia con i narcotrafficanti.
Vivevo con mamma Luz e i miei cinque fratelli in un quartiere che non era molto tranquillo.
Infatti, molte volte la notte sentivamo spari in lontananza, e molte volte non erano proprio lontani.
Mia madre, quando usciva per andare a lavorare, se non poteva mandarci a scuola ci chiudeva in casa, così eravamo al sicuro.
Per andare a scuola dovevamo attraversare un ponte di legno e corde, e avevo sempre paura che si rompesse.
Una notte sentimmo bussare alla porta e un uomo urlava che il diavolo quella sera sarebbe venuto a uccidere tutti. Non lo faceva solo a casa nostra ma in tutte le case del quartiere, e io avevo paura.
Per fortuna mamma era con noi.
La mamma era sempre pronta a difenderci, infatti mi ricordo che una volta fuori dalla porta di casa delle persone l’hanno picchiata ma mamma è riuscita a non farli entrare, anche se poi è stata male.
Poi, un terribile giorno, all’uscita dalla scuola io e i miei fratelli abbiamo visto nostra madre a terra, era andata in cielo.
Io ancora non so chi ha sparato alla mia mamma e perché, ma in quel quartiere era una cosa abbastanza frequente.
Dopo quel giorno le mie paure sono aumentate, ho sempre avuto paura che succedesse qualcosa ai miei fratelli, visto che ci avevano divisi, e io non sapevo dove erano e come stavano.
Poi Santiago è stato portato da me e ci hanno dato una famiglia, in attesa dei nostri genitori.
La signora Lina ci ha tenuto in casa sua per due anni, dopo i quali è stata portata da noi anche la mia sorellina Laura.
Dei miei tre fratelli più grandi ancora non sappiamo nulla. Mamma e babbo hanno chiesto più volte di sapere dove sono ma non sono riusciti a saperlo. Una delle mie paure è che da grande non riesca a ritrovarli perché il governo colombiano, anzi il giudice del tribunale colombiano, ha scritto che solo se hanno una vita normale ci dirà dove sono.
La mia paura più grande quando ero in istituto era di non avere dei genitori, che nessuno ci adottasse, perché io ero grande ed eravamo in tre. Perché di solito venivano adottati bimbi più piccoli di età.
Adesso posso tranquillamente parlarne perché vivo in Italia con i miei genitori, i miei nonni e i miei zii, e grazie a Dio qui nessuno bussa alla tua porta e ti spara. Solo adesso mi sono reso conto di come era la vita nel mio quartiere in Colombia, perché quando ci vivevo mi sembrava normale.
Adesso che queste paure ormai sono superate, mi sento di poterne parlare senza più timore.
Finalmente non ho più paura, neanche del buio, una paura molto frequente prima nella mia vita.
La sera vado a dormire e il buio non mi fa più paura, e non mi fanno più paura neanche i ladri che entrano in casa per prendermi. Anche perché Emilio, il mio splendido cane, fa la guardia.

Jhon Freddy Baglioni


John è un bambino adottato, diventato figlio, con due suoi fratelli, di una famiglia italiana: nel cuore una storia di dolore e di paura che la nuova vita aiuterà a superare.


Cronache per soli genitori adottivi: uguali o diversi?

Primo figlio e primo episodio.
Mio figlio ed io stavamo leggendo I Promessi Sposi quando, piacevole sorpresa, è arrivata un’amica per portarmi un tardivo regalo di compleanno. Ho allora lasciato da solo mio figlio per chiacchierare un po’ con lei.
Al momento di andar via lei, carinamente, si è affacciata alla sua stanza per salutarlo e per interessarsi di quello che stava studiando.
Da brava professoressa di lettere ha sottolineato il valore dell’opera ottenendo però solo una risposta annoiata e poco entusiasta da parte del ragazzo.
La mia amica, allora, per sottolineare l’importanza dello studio del Manzoni ha affermato che quello era il “nostro” romanzo, il romanzo che come la Commedia dantesca individua l’Italia. Fin qui tutto bene e anch’io ho condiviso quanto da lei affermato.
Poi però il suo discorso è continuato chiedendo a mio figlio se anche “loro” avessero un romanzo come il “nostro” che rappresentasse il “loro” Paese.
Mio figlio, per fortuna, non era attento a quello che lei diceva e così non ha risposto e io ho cambiato velocemente discorso riportando l’attenzione su altro e di lì a poco ho salutato l’amica che andava via.
Spero sinceramente che mio figlio non abbia percepito quanto da lei detto mentre per me è stato un vero e proprio pugno allo stomaco: malgrado lei conosca la nostra storia e sappia che mio figlio quando ha lasciato il suo Paese di origine aveva solo dieci anni, cioè troppo piccolo per conoscere eventuali testi letterari rappresentativi, ha dimenticato di avere davanti un ragazzo sedicenne la cui sensibilità poteva venire ferita dal quel suo rimarcare una linea di confine tra “noi italiani” e “loro stranieri”. Quel suo usare gli aggettivi “nostro” e “vostro” ha lasciato chiaramente intravedere la difficoltà ad accettarlo come se fosse biologicamente mio figlio, la difficoltà a considerarlo diverso.
Ma mio figlio è italiano anche se nato altrove, parla e pensa solo in italiano e sono italiane le materie che studia.è la nostra storia, la nostra letteratura che lo stanno facendo crescere, “nostra”, cioè anche “sua”, senza differenza alcuna con i ragazzi nati in Italia.

Altro figlio, altro episodio.
Il mio secondogenito a ottobre del 2009 è entrato nella squadra agonistica dello sport che pratica e, quindi, noi genitori abbiamo dovuto rilasciare le autorizzazioni per il tesseramento in Federazione, necessario per partecipare al campionato del suo livello.
Firmati una prima volta i moduli richiesti, a distanza di un paio di mesi ci venivano nuovamente proposti per mancanza di alcune notizie (ripetere la data e il luogo di nascita, aggiungere il codice fiscale, far sottoscrivere il modello anche dal ragazzo e così via). Passato ancora altro tempo, eravamo ormai a gennaio, mio figlio lamentava il fatto che la tessera non arrivasse e quindi non venisse mai convocato per le partite di campionato.
A febbraio il ritardo era diventato ingiustificabile e anche se il non partecipare alle gare evitava a noi genitori scomodi impegni domenicali, per far contento mio figlio ho chiesto notizie al responsabile della società sportiva.
La risposta è stata a dir poco irragionevole: il ragazzo essendo nato in Sud America e avendo un nome straniero, non veniva tesserato dalla Federazione e la società, per cercare di risolvere il problema e convocarlo alle partite, proponeva di chiamarlo con un nome italiano…
Non so che altro avesse in mente il responsabile perché io ho sùbito interrotto quanto stava dicendo e ho preteso il numero di telefono del responsabile del tesseramento in Federazione a cui chiedere chiarimenti.
Il responsabile interpellato, dichiarava che, a norma di legge, al fine di tutelarsi contro il commercio di atleti minorenni, le Federazioni sportive sono obbligate a richiedere al Paese di origine se il ragazzo abbia mai giocato da professionista.
In tal senso, anche su mio figlio era stata spedita una richiesta in Sud America e si era in attesa di risposta.
Tutto questo avveniva senza minimamente interpellare noi genitori “perché non si preoccupi tanto sappiamo che non ci risponderanno”… ma intanto il ragazzo veniva emarginato per stupidi problemi burocratici che non hanno senso e che considerano noi genitori adottivi tacitamente colpevoli della tratta di giocatori minorenni!!!
Con insofferenza, ho fatto presente alla Federazione che mio figlio, adottato a sette anni, certo non avrebbe potuto giocare da professionista nel Paese di origine e che forse sarebbe bastato avere una dichiarazione di responsabilità da parte di noi genitori in merito, considerato anche che il bambino adottato cambia il cognome e acquisisce piena nazionalità italiana nel momento stesso in cui lascia il Paese dove è nato.
È inutile dire che dopo il mio intervento mio figlio è stato regolarmente tesserato con il suo nome e quindi ha iniziato a giocare regolarmente le partite di campionato.

Nel corso dei nostri sette anni di genitori adottivi altri episodi sono successi, anche se meno gravi rispetto a questi, e sempre ci siamo chiesti: quando potremo smettere di “proteggere” e di “difendere” i nostri ragazzi dalla poca sensibilità di altri, dall’ottusa applicazione di leggi o da coloro che non ritengono figlio un figlio adottato, che lo considerano sempre straniero e diverso?
Penso a tutti quei genitori adottivi che, per diversa esperienza abbiano meno dimestichezza della nostra in materia di norme, di diritto o che, per indole, anziché reagire e protestare come facciamo noi, subiscono passivamente senza trovare alcun supporto nelle istituzioni.
Passato, infatti, il primo anno dopo l’entrata in Italia del minore straniero adottato, i genitori rimangono totalmente soli ad affrontare i problemi di qualsiasi natura, sia interni che esterni alla famiglia.
Ma in fondo anche questi episodi sono parte dei nostri tempi storici, in cui è difficile trovare attenzione per l’“altro”, minore o adulto che sia, è difficile smettere di vedere l’“altro” diverso da noi e meno meritevole di rispetto.
È difficile ricordare che le “diversità” degli altri hanno origine nel nostro cuore, dove costruiamo barriere, confini, categorie e dimentichiamo che siamo tutti uguali, tutti ugualmente figli di un Dio che per primo ha dato in adozione suo Figlio, dimostrando come sia possibile amare oltrepassando i limiti naturali e donando amore incondizionatamente.

Maria Carla Calicchia



Todos juntos!

La storia entusiasmante della famiglia Stucchi e del suo percorso verso l’adozione

La nostra avventura è iniziata con una lunga attesa! Ma, come dice nonna Irma, “ogni cosa ha il suo fine e ogni cosa ha la sua fine”, un bel giorno è arrivata la fatidica telefonata: FINALMENTE l’abbinamento! Quando l’attesa diventa davvero lunga, subentra lo scoraggiamento: possono così dire che l’attesa in Colombia è lunga ma l’abbinamento sicuro, intanto non vedi la fine e neanche i tuoi bambini. Ci saranno davvero questi bambini? Rassicurare chi sta aspettando con le parole non serve, possiamo però raccontarvi la nostra storia e dirvi che ora siamo la famiglia Stucchi, come dicono i nostri figli, todos juntos: mamma Emanuela, papà Giovanni, Camilo e Danna. Non ci credevamo più… Siamo stati aiutati dalle nostre famiglie, dagli amici, anche da quelli del corso di spagnolo. Abbiamo vissuto l’attesa, l’abbinamento e la permanenza in Colombia, con le prime gioie e difficoltà, delle famiglie del corso. Quando è arrivato il nostro momento ci è stato di aiuto ricordare le loro esperienze. Al corso, Gloria ci ha insegnato non solo la lingua, ma le canzoncine e le storielle in spagnolo. A Cali ogni sera, prima di dormire,leggere una fiaba in
spa-gnolo o cantare “el
trencito del oeste” ci ha aiutato molto ad affiatarci con i figli e metterli a loro agio. Cosa dire dell’incontro?! Quante volte immaginato, ogni volta in modo differente. Il faccino di Camilo all’entrega non lo scorderemo mai e i pianti di Danna. La forte tensione prima dell’incontro e la presenza rassicurante di Pilar. La prima sera insieme, stanchi ma tutti quattro contenti: che corse sulle scale dell’hotel di Cali. I giochi sparsi in terra nella camera e todos juntos a giocare e cantare.
I primi capricci di Danna, le corse di Camilo con le cadute e sbucciature sulle ginocchia. Lo spagnolo che si fonde con l’italiano e scoprire che i bambini ci capiscono anche se parliamo l’italiano. La permanenza in Colombia è stata piacevole. Eravamo molto stanchi perché i bambini sono vivaci, però siamo riusciti a viverla bene. Abbiamo incontrato persone disponibili e cordiali e abbiamo apprezzato ciò che la Colombia offre: nel cibo e nelle mete da visitare a Cali e Bogotà. Ora qui a casa è iniziata la vera avventura! Il nostro pensiero va alle coppie in attesa. Possiamo solo dirvi: famiglia… todos juntos! Nello spazio metteteci il vostro nome perché tra poco toccherà a voi.

Famiglia Stucchi



Notizie dalla Colombia!

Ciao a tutti ragazzi: troppa è la gioia di queste ore per non raccontarla!
È incredibile... è la prima giornata della famiglia Caimi e sembra che ci conosciamo da tutta la VITA!
Il giorno dell’incontro è stato faticoso per tutti perché per un’alluvione abbiamo dovuto rimandare di ben sei ore e tutti eravamo stanchi: e Carlos era molto preoccupato.
È bastato tornare tranquilli in albergo e da subito ci hanno chiamato mami e papi... Sono splendidi come ci avevano scritto nella scheda dell’ICBF: bravi, intelligenti, educati, rispettosi, ovviamente sono sovraeccitati dai tanti stimoli nuovi.
Qui facciamo vita da vacanza ed è ideale per dedicare tutto il tempo a loro (in questo momento sono le 5.30 del mattino e fanno la nanna...).

BACI E ABBRACCI A TUTTI!
CAIMI Monica Giorgio Diana Carlos



Sembrava una giornata disastrosa...

La giornata era iniziata proprio male, aver scoperto che la sera prima durante una nostra assenza i ragazzi avevano litigato tanto da rompere lo spigolo del muro e da sfondare il pannello di una porta di legno ci ha fatto subito preoccupare e reagire: così li abbiamo buttati giù dal letto minacciando punizioni a tempo indeterminato per tutti e tre e ricevendo solo poche frammentarie frasi su quello che era successo.
La necessità di uscire per andare a lavoro lasciava tutto in sospeso, noi arrabbiati e i ragazzi chissà forse offesi, forse mortificati, forse arrabbiati a loro volta…
Con il passare delle ore abbiamo ritrovato la calma sia per gli impegni lavorativi sia perché parlando tra noi della cosa e con gli amici tutto sembrava meno grave.
Certo non è piacevole sentirsi dire che essendo maschi i miei figli possano avere reazioni così violente, proprio non riesco ad arrendermi al fatto che chiunque possa comportarsi in preda alla rabbia in modo tale da dimenticare la propria e l'altrui sicurezza, soprattutto nonposso pensare che oggi hanno rotto una porta
ma che potrebbero farsi del male a vicenda data la loro irruenza e la loro forza fisica… ma come farglielo capire, come fargli capire che la nostra inquietudine è generata proprio dalla paura che si possano fare male in modo tragico o irreparabile, e fargli capire che li amiamo tanto da non volere che succeda? Questo penso sia l'empasse che vive il genitore ogni volta che dalle ceneri deve far sorgere qualcosa di positivo senza lasciarsi fuorviare dai sentimenti che prova,siano essi rabbia, pietà, amore eccessivo.
Quante volte nel passato la reazione immediata e "violenta" da parte nostra anziché ottenere chiarezza ha causato maggiori bugie e risposte violente.
Questa volta invece l'abbiamo affrontata così: fino all'ora di cena non abbiamo detto niente e solo una volta tutti a tavola abbiamo chiesto ai ragazzi se sapevano quanto difficile fosse il lavoro di giudice e tranquillamente, pretendendo però di non essere interrotta, ho riferito le loro tre versioni dei fatti che apparentemente sembravano contraddirsi dopo di che abbiamo chiesto loro a chi dovevamo credere o come
fosse possibile credere alle loro parole. Che sorpresa vedere come il nostro secondo figlio ha dimostrato, attraverso la ricostruzione dei fatti, che tutti e tre avevano detto parte della verità: i due piccoli stavano litigando e il grande, nel cercare di dividerli, era intervenuto spingendo via il secondo e causando senza
volerlo la rottura del muro contro cui era andata a sbattere la scrivania. A quel punto il piccolo se
ne era andato a letto e il secondo arrabbiato si era chiuso in bagno. Solo poco dopo, quando il grande lo aveva più volte invitato a uscire dal bagno e ad andare a letto, lui per rabbia aveva un pugno alla porta rompendola. A quel punto è stato facile continuare "il processo", valutando responsabilità e attenuanti
e chiedendo a loro stessi di quantificare le pene con le diverse entità. Ma soprattutto è stato bello da parte dei piccoli sostenere all'unisono che il grande non c'entrava niente e che la colpa era stata solo loro.
Così le punizioni sono state definite anche con il sorriso sulle labbra sia perchè il più grande ha ritenuto giusto avere una piccola punizione e perché quando il più piccolo ha proposto la sua (due mesi senza giochi e uscite) gli altri due lo hanno aggredito per fargli capire che aveva esagerato e che avrebbe dovuto diminuire la proposta per evitare al fratello più colpevole di essere chiuso in casa per un periodo interminabile.
Sembrava proprio una giornata disastrosa e invece abbiamo tutti imparato qualcosa!

Rocco e Carla Terracciano
genitoriadottivi@yahoo.it



Una lezione di vita da Cristina e Miguel

Ora Cristina e Miguel sono due ragazzi di 17 e 12 anni e hanno incontrato i loro genitori a 10 e 5 anni
Quando mi è stato chiesto di scrivere l'introduzione a questa lettera mi sono domandata se vi fosse veramente bisogno di un commento o di una premessa, data la chiarezza e la saggezza che queste parole contengono nella loro semplicità.
Si può affiancare a parole così dense e sgorgate dal cuore un riferimento teorico?
Credo che in queste righe vi siano una maturità di pensiero e una verità che non hanno bisogno di sostegni teorici o introduzioni,quanto forse di rispetto e gratitudine per ciò che ci insegnano.
Ho avuto la fortuna di conoscere Cristina, Miguel e i loro genitori all'inizio del loro percorso di costruzione del nucleo familiare e di osservarne la crescita passo dopo passo, tramite gli incontri e le serate del gruppo di post-adozione per genitori di bambini in età prescolare.
Insieme a loro e grazie a loro siamo cresciuti anche noi operatori, imparando dalle piccole cose, riflettendo sulle frasi dei bambini che i genitori ci riportavano e che spesso contenevano verità profonde e importanti.
Insieme a loro e grazie a loro abbiamo tradotto in realtà concrete le teorie apprese sui libri, imparando che adottare un bambino significa saper e poter accettare quell'inevitabile quota di incertezza che ogni figlio
porta con sé, e che non esistono formule matematiche che garantiscano un percorso lineare e privo di difficoltà (età minore uguale adozioni più semplici oppure storie, ai nostri occhi di adulti, più "facili" uguale minori problemi).
L'adozione di un bambino, qualsiasi età egli abbia, può racchiudere una grande ricchezza se siamo disposti ad accoglierla senza paura, rendendoci disponibili ad amare il figlio per ciò che è (e non per ciò che vorremmo che fosse) e imparando a valorizzarne gli aspetti positivi (invece che tentare di cancellare quelli negativi). Come dicono Cristina e Miguel "il neonato piace a tutti perché è piccolo e adorabile" ma la relazione fra genitori e figli non è basata sull'essere piacevoli o adorabili e soprattutto, come questa lettera ci dimostra, è qualcosa che si costruisce giorno per giorno a prescindere dall'età. Anche qui non ci sono età che garantiscano costruzioni più solide: ci sono mattoni invece, come il dialogo, la riflessione e la libertà nel poter pensare e parlare di adozione, che sono fondamentali per evitare il crollo.

Viviana Rossetti

E così Cristina e Miguel scrivono:
Ciao! Noi siamo Miguel e Cristina e siamo stati adottati da una famiglia italiana 7 anni fa. Con loro ci troviamo molto bene. Un giorno la mamma ci ha detto che doveva andare a parlare ad alcune persone per dare dei motivi del perché dovevano adottare un bambino grande. La mamma, quindi, ci ha chiesto di "aiutarla". Così abbiamo deciso di fare una sorpresa alla mamma lasciando un bigliettino, con su i nostri pensieri, vicino alla macchina del caffè.

Sul bigliettino c'era scritto:

- un neonato non ti lascia dormire la sera - se è molto piccolo, quando diventa grande è più difficile dirgli che è stato adottato
- un bambino grande ha più bisogno di amore, perché nella sua vita ha sofferto e magari non è stato compreso o è stato maltrattato e, quindi, ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene, di qualcuno che lo ascolti, che gli stia accanto nei momenti difficili
- con un bambino grande tu puoi fare tante cose come giocare a calcio, alla playstation, fare il tifo per la squadra del cuore, ecc.
- con una bambina si può andare a fare shopping, parlare, ecc.
- se prendi un bambino grande sai già anche come è il suo carattere, mentre quello di un bambino piccolo no perché deve ancora crescere
- come nei canili, di solito si tende a prendere il cane cucciolo e lasciare il cane grande/anziano che, secondo noi, ha più bisogno di essere amato

Il neonato piace a tutti perché è piccolo e adorabile, perché puoi portarlo a spasso col passeggino, dargli il biberon, cambiargli il pannolino, ecc. Ma un bambino già grandicello di solito è più difficile che venga adottato e alla fine finisce per crescere senza una mamma e un papà.
Miguel ha suggerito, infine: con un bambino grande potete fare le cose che volete, invece con un bambino piccolo dovete aspettare a fare tutto ciò che con un ragazzino si può fare subito.

Speriamo di avervi convinto

da Cristina e Miguel


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